Il Forum Nazionale Missionario ha riunito a Montesilvano, vicino a Pescara, dall’11 al 14 novembre, più di duecento persone - Missio, collaboratori nei Centri Missionari Diocesani da tutta Italia, SUAM (Segretariato Unitario di Animazione Missionaria), CIMI (Conferenza degli Istituti Missionari Italiani)- per riflettere su come “Vivere nel mondo il dono e la cura”. La proposta è stata articolata in tre passaggi, ispirandosi ad un metodo ormai consueto e caro al mondo missionario e alla pedagogia popolare, specie latinoamericana. Intrecciando, cioè: uno sguardo sui vissuti, fatto di ascolto, di fiducia e rispetto per l’altro (per i “piccoli” in particolare); un momento meditativo sulle varie realtà, stimolato dalla raccolta di differenti pensieri, valutati criticamente, in un’analisi dialogata e prospettica; una (ri)formulazione collettiva e dialogica di proposte di azione, per nuovi vissuti che siano segni credibili di una speranza che si incarna. Passaggi metodologici riproposti nel Forum sono stati scanditi da tre momenti in sequenza: Osservare, Riconoscere e Scegliere, declinati nelle due giornate attraverso i racconti di testimoni missionari, con i contributi di un filosofo, di un teologo e dal lavoro in gruppo dei partecipanti. Un percorso articolato al quale nel pomeriggio iniziale è stata preposta una “Cattedra dei poveri”, un tempo dedicato ai racconti di storie di uomini e donne che, seppure impoverite da sistemi iniqui e violenti, hanno intrapreso percorsi di speranza e di trasformazione, trovando mani tese e presenze amiche nel farsi prossimo di chi ora li rendeva presenti raccontandoli. Un percorso stimolante ed ambizioso, quello proposto dal Forum, che ha in parte risposto alle attese, ma che ha anche mostrato – inevitabilmente?– distrazioni e limiti, rilanciando sfide. Vorrei registrarne alcune, come inquietudini suggerite sottovoce, come appunti discreti e incerti. Alla “Cattedra dei poveri”: così si è cominciato il Forum, quasi a tracciare un orizzonte ai lavori, affidando il compito a testimoni di prossimità, attraverso racconti coinvolgenti e cercando di dare riconoscimento e voce ad uomini e donne che vivono nascoste nelle pieghe di terre e popoli segnati dalla fragilità della speranza e da carenza di futuro. Alla forza dei racconti, in questo momento iniziale, così come nei racconti dei momenti dell’Osservare, capaci di restituire nomi e volti, nella dignità d’essere resi presenti, la riflessione susseguente non vi ha forse coerentemente risposto, o perlomeno non con quello stesso rigore con cui Gesù prese sul serio l’obiezione che gli era stata fatta nella sinagoga a Nazareth: “Perché questa speranza che predichiamo non accade qui per noi oggi?” Qui per noi, ossia, interrogando proprio quelle storie, o almeno senza lasciarle sfumare nello sfondo.
Certo, il momento del Riconoscere è stato prezioso ed intenso, ma forse in certo qual modo ci si è distratti verso un propria strada dove sembra che un po’ tutti ci siamo sentiti più a nostro agio, tanto che, quasi senza avvertenza, anche nei laboratori del Scegliere sono stati più citati il filosofo e il teologo, come fosse più facile apprendere e trarre ispirazioni dalla loro cattedra che dirci cosa si impara, di fatto, dalle donne ugandesi, dai campesinos dell’Amazzonia, o da quella donna malgascia che ci ha insegnato un inedito e intenso modo di fare comunione con Cristo; o anche solo dai volti e dalle storie che ciascuno e ciascuna dei partecipanti raccontava agli altri. Così, magari distratti anche dalla fatica di descrivere e di sistematizzare, o forse rassicurati da argomenti convincenti con cui ri-dire pensieri nostri, ci siamo chiesti più se si tratta di: poveri o impoveriti?, fragili, ultimi o piccoli?, senza permettere che sia il grido fastidioso e scomposto dei tanti e tante, fermi ai bordi della strada come il cieco Bartimeo, a chiederci posto ed ascolto. Magari senza cattedre, e a disagio con i microfoni. Uomini e donne, (prendendo a prestito il modo con cui l’evangelista Marco lo racconta) che forse potrebbero riconoscersi come “quelli che si può partire senza di loro”; “quelli che il mondo (anche noi?) va avanti anche senza loro”. Le sintesi, preziose e intense (da riprendere e ristudiare, come scritti preziosi – come detto da molti partecipanti), hanno così rischiato di sovrapporsi alle storie narrate senza riprenderne a fondo gli interrogativi. Faticando a creare quel silenzio dialogante che - come descritto da Marco - Gesù costruisce anzitutto fermandosi, aspettando, creando forme di incontro, rialzando Bartimeo perché gli sguardi si incrocino, ed attendendo che il grido generico trovi parole proprie per (ri)formulare il proprio desiderio. Un desiderio che non decide Gesù, restando però disponibile a coinvolgersi: “Cosa posso fare per te?”. È Bartimeo che chiede di vedere in modo nuovo, e Gesù vi corrisponde: senza condizioni – che poi l’altro lo segua appartiene al gratuito; alla libertà generata dal vedere, e alla possibilità del poter decidere. A questa prossimità ci si è comunque avvicinati più volte, nei racconti e nei laboratori; come in quel punto di un guado che chiede un salto verso l’altra riva: a volte fidandoci, altre indietreggiando. Grazie ai racconti che i partecipanti si sono donati nei laboratori, capaci di rallegrare il cuore per tanti segni di accoglienza, di ascolto e rispetto; e alla bellezza dell’ostinato non smettere di fare del dono e della cura il segno più credibile dell’annuncio. Possiamo allora magari imparare anche dalle fatiche di tradurre in metodo e in pratiche formative più attente le intuizioni che di fatto viviamo e che tante storie preziose e vive ci additano. E riuscire magari così ad essere anche noi di “quelli che non (ri)partono se qualcun altro o altra non può scegliere di partire - per quel dove e come che poi deciderà”.
Don Gabriele Giacomelli