P. Cavallini, è nato a Povegliano anche se a Povegliano c’è stato pochino….
Si, ho 65 anni, 40 dei quali passati in Etiopia a varie tappe. Se poi aggiungiamo gli altri passati in formazione in Italia e negli Stati Uniti, diciamo che non ci sono stato molto a Povegliano, il mio paese d’origine.
- Che rapporto ha con Povegliano?
Con Povegliano, nonostante non ci vediamo moltissimo, ho sempre conservato e conservo un rapporto speciale al quale tengo moltissimo. Ogni volta che torno in Italia incontro amici, parenti, il parroco e soprattutto il gruppo missionario che in questi anni mi ha dato una grande mano. Colgo l’occasione per ringraziare il gruppo missionario di Povegliano, i vecchi e i giovani componenti, per la preziosa collaborazione e per quanto hanno sempre fatto per la missione in Etiopia attraverso una serie di progetti. Progetti legati soprattutto all’evangelizzazione diretta, a sostengo di catechisti, delle donne impegnate anche nelle più piccole comunità. Abbiamo avuto un occhio di riguardo nella promozione di leadership: molte persone impegnate nella chiesa e nella catechesi hanno potuto godere dell’aiuto raccolto dalla parrocchia attraverso i parroci, dal gruppo missionario.
- Cosa sta facendo in Etiopia?
Nel sud del paese, il vicariato di Awasa è un territorio storicamente evangelizzato dai comboniani e dalle comboniane. Abbiamo ancora diverse missioni, anche se molte le stiamo lasciando al clero locale o a congregazioni locali che nel frattempo sono cresciuti molto. Noi comboniani anche in Etiopia stiamo invecchiando e stiamo riducendo il personale, ma una cosa bella è che forze nuove dell’Africa stanno assumendo la responsabilità del lavoro di evangelizzazione. Si realizza così il grande sogno di Daniele Comboni di salvare l’Africa con l’Africa, Tanti giovani africani stanno diventando evangelizzatori e promotori di sviluppo nel continente. E di questo sono molto soddisfatto.
- Quali sono le maggiori sfide oggi in Etiopia dal punto di vista pastorale?
Sono due, e molto chiare: l’avanzata dell’islam, che arriva dalla Somalia e dagli altri paesi arabi che finanziano la costruzione di moschee quasi in ogni villaggio, con la presenza di imam che arrivano spesso dall’estero, e la crescita delle chiese evangeliche di matrice cristiana, che noi chiamiamo “sette”, che si stanno moltiplicando a dismisura. Questo rende il nostro lavoro difficilissimo, aldilà delle nostre possibilità. A volte ci sembra di non essere adeguati ad affrontare queste sfide, però certamente manteniamo la serenità di fare quella “goccia” perché il Regno di Dio vada avanti e perché anche la nostra chiesa possa avere un suo sviluppo.
- Siamo nell’ottobre missionario. Cosa augura alla chiesa di Verona?
Il mio augurio più grande è che sappia leggere i segni dei tempi. Venendo in vacanza in Italia, non solo a Verona, vedo che si è ridotta quella spinta missionaria che c’era un tempo, anche fino a pochi anni fa, e credo che i vescovi stessi dovrebbero rinforzare questo aspetto. Papa Francesco continua a parlare di chiesa in uscita: vuol dire che ci vuole sempre il coraggio di partire. Anche a me molti dicono “ma perché parti, i bisogni sono tanti anche qui da noi in Italia, l’Africa è arrivata qui con i migranti”. So bene quante sfide ci sono anche in Italia oggi, ma io ricordo sempre a quanti mi dicono questo che il vicariato di Awasa dove lavoro ha un’estensione di 120 mila kmq - praticamente grande come il nord Italia- con 50 preti! Si capisce perché è ancora importante andare e creare leadership, capacità di gestire comunità!
- 50 preti su un territorio come il nord Italia. Sarà una chiesa di laici…
Il lavoro di ogni prete ad Awasa è quello di creare una chiesa ministeriale, nella linea di papa Francesco e del Vaticano II. Una delle tante cose che ci insegnano le giovani chiese dell’Africa è la valorizzazione dei laici. In queste settimane ho parlato con alcuni amici diaconi permanenti in Italia e mi dicono che rischiano di essere impegnati solo… ad accendere le candele. Questo non è usare i ministeri secondo la ricchezza e i carismi che il Signore ci ha dato. Da noi ad Awasa un catechista, un responsabile della comunità fa praticamente tutto, tranne la consacrazione dell’eucaristia e la confessione. Le comunità sono in mano loro: dalla gestione del catecumenato, alle liturgie, all’economia. Noi preti, nella misura in cui possiamo, giungiamo alla fine del lavoro.
Paolo Annechini