Classe 1947, prete dal 1974, don Gianfranco in queste settimane è rientrato definitivamente da Cuba dove è stato missionario nella diocesi di Pinar del Rio per 18 anni con altri fidei donum di Verona
- Don Gianfranco, dove inizia la tua storia con Cuba?
C’è una premessa da fare: in gioventù avevo vissuto un’esperienza di tre mesi in Perù con p. Ugo De Censi, fondatore dell’Operazione Mato Grosso, quindi masticavo un po’ di spagnolo. Quando ero parroco alle Vestene un giorno mi vennero a trovare due amici preti con don Mario Sulmona. Parlando don Mario mi disse che stavano cercando un prete per sostituire per due mesi a Cuba don Giulio Battistella che doveva rientrare per una questione di salute. Mi sono proposto e sono andato. Era il 2002 e sembrava finita li. Poi invece nel 2004 quando don Giulio rientrò definitivamente, i superiori mi chiesero se volevo andare a Cuba continuando il lavoro nella missione nella diocesi di Pinar del Rio, con gli altri fidei donum veronesi. Ecco come è nato il mio “avvicinamento” a Cuba.
- In questi 18 anni cosa hai visto a Cuba?
Ho visto la tenacia di un popolo, che sa affrontare difficoltà per noi insormontabili: c’è cibo appena sufficiente, mancano le cose della vita di tutti i giorni, file lunghissime davanti ai negozi. E la gente affronta tutto questo con una forza incredibile: in qualche modo si arrangiano sempre.
- E la chiesa?
È la chiesa delle tre P: piccola, povera, paziente. Ed è proprio una definizione azzeccata. Piccola, perché poco frequentata, povera, perché non ha niente, paziente, perché, come il popolo, anche la chiesa deve mettere in atto la pazienza, mettersi in fila, chiedere per ogni cosa, non poter fare molte delle pastorali che si fanno qui in Italia.
- In 20 anni come è cambiata Cuba, dal tuo punto di vista?
Forse 20 anni fa era un po’ più povera di oggi, ma non ho visto cambiamenti significativi. MI impressionava, appena arrivato, sentire che tutti, soprattutto il giovani, volevano lasciare il paese.
- E adesso?
Lo stesso, tutti vogliono lasciare l’isola. Purtroppo è il sogno dei giovani, che non vedono futuro.
- La pratica religiosa?
L’1% circa. I cubani dicono: siamo credenti ma non praticanti. Era l’1% quando sono arrivato, ancora oggi siamo lì, anzi, direi anche meno causa covid. Tutti chiedono il battesimo, e poi basta. In 18 anni ho celebrato solo un matrimonio!
- L’1% giustifica una presenza?
Certo che si! C’è una realtà da accompagnare, evidentemente. La gente gradisce molto la visita, il contatto, la relazione, si confida. Molto radicate sono le case di Missione, ovvero laici, catechisti che mettono a disposizione casa propria e diventano comunità di preghiera, dove si celebra la messa, dove ci si incontra per momenti di formazione e catechesi. Appunto, una chiesa piccola, povera, paziente. Fare il missionario a Cuba vuol dire essere disposti a cambiare spesso parrocchia: ogni tre – quattro anni il vescovo ci chiedeva di spostarci: i preti sono pochi e bisogna seguire le necessità pastorali. Anche questa itineranza ti forma.
- Fare il missionario a Cuba vuol dire quasi quasi soffrire un po’ la fame?
Beh non direi proprio così, però… quando vivi a contatto con la gente la gente vede come vivi e ti porta un pezzo di carne, un uovo… tu sai cosa vuol dire per loro privarsi di queste cose, e capisci quanto il rapporto instaurato sia importante e profondo. Quasi sempre è gente che poi non frequenta, è tra quel 99% che diciamo essere lontani perché non partecipano alla messa, ma proprio lontani non sono, anzi!
- Come vedi il futuro di Cuba?
Bella domanda, non saprei rispondere, penso che Cuba stia cercando di capire cosa vuol essere. Nel frattempo i giovani, come ho detto, sognano di andarsene, molti se ne vanno, le famiglie vivono con le rimesse di chi è all’estero.
- E adesso cosa farai?
Sono in età da pensione. D’accordo con il vescovo, mi inserirò come collaboratore nella parrocchia di San Pio X a Verona dal mio amico Calbe (don Alberto Carcereri, ndr). Non è mai stato missionario, ma è venuto più volte a trovarci e per la gente di Cuba è come lo fosse stato anche lui.
Paolo Annechini